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Le ombre di Camlann


I soldati si preparano ad abbracciare il loro fato
Camlann: il fato tesse le sue nebbie.

Conosco bene Artù. Lo conosco da molti anni e da anni gli sono al fianco.

Capisco quando è turbato, per come apre e chiude la mano. Sento la sua furia mentre carica i nemici di Camelot. Percepisco la sua tristezza, mentre accarezza distrattamente il fodero ricamato da sua sorella Morgana, la fata. A volte lo sento bisbigliare tra sé, quando pensa che nessuno lo veda, e ricordare i tempi verdi della giovinezza quando le delusioni erano nubi appena accennate nell’immenso cielo estivo. Sulle labbra riaffiorano i nomi di chi ha amato e ama tuttora con tutto se stesso. Ginevra, Lancillotto, Morgana…


Ho sentito Artù predisporre il piano per attaccare Mordred, qui nella foresta magica dove un tempo i druidi venivano a celebrare gli antichi dèi. Le querce, i castagni e i faggi, che insegnavano le leggi della Dea e, talvolta, bisbigliavano qualche incantesimo a coloro che sapevano ascoltare, ora tacciono. Silenti osservano il tempo degli uomini fare il suo corso.

Un sottile strato di neve riveste di purezza ogni cosa e per un istante, persino il cuore degli uomini appare candido. Così pensa Artù, mentre si sistema l’armatura.


I cavalieri intirizziti dal freddo sono pronti alla carica ma Artù, con un elegante gesto della mano, ordina di attendere. Poco più in là, sul limitare della radura che si apre nel cuore di una grande faggeta, qualcosa si muove.

«Che succede, mio re?», chiede il fidato Galvano.

Artù non risponde. Sente che qualcosa non va, glielo leggo in volto. Il suo braccio si è fatto rigido, il suo sguardo sottile e tagliente.

«Chiamo la cavalleria?»

Due corvi volano alti nel cielo. Eleganti ombre scure contornate dal manto argentato delle nubi. Gracchiano e scrutano il destino degli uomini. Si alzano e si abbassano, sfiorano le cime degli alberi, sfidano le lance dei cavalieri, schivano frecce. Si posano sui rami di un frassino e aspettano.

«No, Galvano. Avanziamo a piedi.»

Il cavaliere apre la bocca per replicare, vorrebbe avvertire il suo re che è una follia attaccare in questo modo, ma dice solo: «Sì, mio re.»


Sotto lo stendardo rosso e oro dei Pendragon, Artù Pendraogn, figlio di Uther e di Igraine, re della Britannia e figlio di Avalon, avanza alla testa del suo esercito, tra le ombre di Camlann.

«Una volta Merlino mi disse che la maledizione degli uomini è che essi dimenticano», disse Artù rivolgendosi all’amico. «All’epoca non capii, come capitava spesso, cosa il saggio mago volesse dire. Ora credo averlo intuito. Oggi… voglio che gli uomini ricordino e capiscano. Tu mi capisci, Galvano?»

Il cavaliere non ha il tempo di rispondere. La voce del re risuona nella foresta, simile al grido di battaglia di un drago. Lesti, i corni da guerra lanciano il segnale e i foderi metallici urtano contro le armature, mentre le mani inguantate estraggono le spade.


Simili a riflessi in uno specchio, sir Mordred e suoi cavalieri si schierano ai bordi della radura. I volti tesi sono trafitti da lame di luce. Un attimo di quiete e poi esplode la tempesta della battaglia. Artù contro Mordred, padre contro figlio. Re contro rivale. L’esito lo conoscete tutti.

Ma solo io conosco la vera storia e le ultime parole di Artù.

Artù giace ai piedi di una quercia, il sangue che gli sfugge tra le dita, un sudario porpora sulla terra. Il suo viso, segnato dall’età, è pallido; gli occhi, un tempo azzurri come il mare di Tintagel, sono spenti.

«Sono esausto,» sussurra, guardandomi.


La luce del sole morente filtra tra le fronde della quercia ai piedi della quale giaceva Artù, e si adagia lieve sulla fronte sudata del re, facendo di nuovo splendere i suoi capelli ora ingrigiti.

«Non ho paura di morire, sai.»

Lo so.

«Vorrei solo rifare tutto daccapo. Ma questa volta in modo diverso. Ascoltare di più, amare di più… perdonare di più», chiude gli occhi mentre contrae la bocca. Geme, stringendo la mano sulla ferita. Il sangue, che scorre a fiotti tra le dita, ha arrossato il fianco e la terra. Sembra che il re sia disteso su un sudario color porpora.


So anche questo, mio adorato Artù. Tra tutti gli umani che ho conosciuto tu sei senza dubbio il mio preferito. Dopo Morgana.


«Sai», riprende con un filo di voce. «La prima volta che ti ho visto ho avuto paura. Tu… eri così potente. Sapevo che averti al mio fianco avrebbe significato lottare tutta la vita per essere un uomo e un re degno del tuo potere. Quanti anni sono passati da quel giorno lontano. Ero solo un ragazzo… pieno di illusioni e speranze. Sapevo così poco della vita e di me stesso. Anche adesso che sto per morire sento di non aver compreso molto». Un sorriso amaro gli distene le labbra. «Oggi ho perso tutto ma forse lascio in eredità qualcosa di molto più importante…».


Pronuncia quelle parole aspettandosi una risposta dalla foresta antica, dai corvi che lo fissavano appollaiati sui rami, dal cielo distante. E forse anche da me.

Ma non è mio compito rivelare ad Artù la verità.

«Vorrei… vorrei…» mormora perdendo le forze. Le parole restano spezzate sulle labbra fredde.

Solo io so cosa voleva dire.


Le ombre di Camlann si distendono pietose sul volto del re.


La morte di re Artù di Camelot
Il silenzio chiama Artù nelle sue ombre.

Le sacerdotesse emergono dal nulla. Leggere come pensieri, si muovono senza fare rumore sul manto brinato.  Morgana, minuta e scura, si inginocchia accanto a lui. Gli pulisce il volto, gli chiude gli occhi, lo bacia. Obbedendo ad un suo muto comando, creature fatate emergono dalle profondità della foresta e sollevano Artù e ,insieme alle sacerdotesse, avanzano verso il manto di nebbia, levatosi d’un tratto dal terreno. Il corteo funebre svanisce nella nebbia.


Io sono con loro, gelata da un vuoto che non conoscevo. Ho amato l’uomo più del re.

Che posso fare per onorare Artù?


Mentre riemergiamo nella luce giovane e fresca del sole di Avalon, Morgana mi si avvicina e bisbiglia:

«Custodisci la memoria degli eventi. Fa' che nulla venga dimenticato».

Poi Morgana, Signora di Avalon, leva le braccia e pronuncia l’incantesimo che scuote la fondamenta dell’isola sacra e i pilastri del cielo: «Qui giace Artù. Re che fu e che sarà».

 

Il tempo, la parola degli uomini e il canto dei poeti hanno costruito la leggenda. Tutti conoscono il mio nome, la leggenda dei cavalieri della Tavola Rotonda, degli amori e dei tradimenti che hanno avuto per protagonisti uomini e donne comuni ma divenuti, nel bene e nel male, straordinari. Tutti si pongono la stesa domanda: «Sono veramente esistiti?»

Io replico: «È davvero così importante?»

Quando nel XV secolo sir Thomas Malory mise per iscritto la storia di Artù lo fece perché quelle vicende lo toccavano nel profondo. C’era qualcosa nel mito del condottiero vissuto oltre mille anni prima che gli impediva di appoggiare la penna al leggio e che, anzi, lo spronava a scrivere e scrivere.

Cosa fosse successo davvero nella pianura di Camlann nell’anno del Signore 537?

Le cronache erano fumose e imprecise. Vaghi erano riferimenti al turbolento periodo in cui la mano civilizzatrice dei Romani, dopo oltre trecento anni, si ritirava dalla Britannia. Ci volle poco perché il caos mandasse in rovina struttura organizzativa e l’assenza delle legioni spronasse gli invasori ad attaccare le coste.


Il mito di re Artù affonda le sue radici in un periodo storico turbolento, segnato dalle invasioni dei Sassoni in Britannia a partire dal V secolo. La figura di Artù emerge come un condottiero britanno, un eroe che si oppose con valore a queste incursioni. Le prime testimonianze storiche che citano un personaggio di nome Artù risalgono al X secolo, con gli "Annales Cambriae", una cronaca gallese che narra delle sue vittorie contro i Sassoni, in particolare nella battaglia di Mont Badon.


Accanto alle cronache, poemi gallesi e scozzesi, come il ciclo di "Y Gododdin", celebrano Artù come un eroe invincibile. Altre opere letterarie, come "The black book of Camerthen" e "Culhwch ac Olwen", introducono elementi magici e il personaggio di Merlino. Tuttavia, è con Geoffrey di Monmouth e la sua "Historia Regum Britanniae" che Artù viene trasformato da capo militare a re, paladino dei valori cristiani.

Successivamente Artù trovò la morte nella battaglia contro tale Medraut; questo nome fu con probabilità modificato dai vari copisti, redazione dopo redazione, fino a diventare “Mordred”, figlio illegittimo del re.



La storia si arricchisce di personaggi e trame che verranno sviluppati da autori successivi. Per esempio Chrétien de Troyes tesse la trama del triangolo amoroso più famoso della letteratura: Artù-Ginevra e Lancillotto. La vicenda nel Medioevo era divenuta talmente celebre da essere ritenuta galeotta dell’amore adultero di Paolo e Francesca, di cui con soave ardore cantò Dante nel V canto dell’Inferno.


«Dopo un lungo lavoro, Malory portò a termine la sua opera tra il 1469 e il 1470. William Caxton, primo stampatore inglese, la pubblicò nel 1485 con il titolo La morte Darthur, operando tutta una serie di interventi illegittimi ed arbitrari. Il capolavoro di Malory, originariamente costituito da otto romanzi autonomi, da Caxton viene presentato come un’opera unitaria, formata da 21 libri, divisi in tre sezioni: la prima racconta la nascita di re Artù e la fondazione della Tavola Rotonda, le vicende di Balin e Balan che, per un fatale errore, si uccidono in duello; la seconda racconta la tragica vicenda di Tristano e Isotta la Bionda e l’ultima presenta la vicenda dell’amore infelice tra Lancillotto e Ginevra ma comprende anche il racconto del Santo Graal (la coppa usata da Cristo nell’ultima cena) e della morte di re Artù[1]».


L’epopea di Artù è tuttora un mito sognato e amato da generazioni di appassionati e studiosi, a prescindere dalla sua storicità. Piacque – e piace- in virtù del suo potere evocativo; le vicende infatti sono quelle più care agli uomini e alle donne di ogni tempo, minacciati dalle guerre e dalla naturale precarietà della vita: la passione, il senso di fratellanza, i valori cavallereschi, l’evocazione di epoca mitica, fatta di giustizia in cui regna un sovrano, predestinato, onesto e pietoso. E questi valori alimentano il sogno di una società ideale che un giorno, forse, si avvererà. È per questo che, pensando a re Artù e ai cavalieri della Tavola Rotonda, ci capita di canticchiare: “C’è un gran castello nella contea di Camelot con mille e più scudieri al servizio di un grande re… ed il solo non tramonta più, alla corte del grande re Artù”[2].

 

Tra i molti personaggi del ciclo arturiano spicca Morgana, la fata o Morgan le Fey.

Controversa, temuta e amata. Morgana è uno dei personaggi più affascinanti per via del suo ruolo. Lei incarna l’incontro/scontro tra due mondi e due culture; non dimentichiamo che la vicenda arturiana tratta anche del delicato passaggio dal mondo celtico-druidico a quello cristiano: la Dea Madre viene lentamente ma inesorabilmente messa da parte dal Dio cristiano. Pertanto la figura di Morgana assume vari aspetti: sacerdotessa, strega o la fattucchiera. Lei è la tentatrice che corrompe il cuore di Artù fino a portarlo a compiere il più atroce dei peccati, l’incesto da cui, appunto, nascerà Morder.


Ma Morgana, in realtà, ha in sé i simboli della cultura druidica e della sapienza antica che in un tempo perduto, riconosceva nelle donne la fonte dei grandi poteri della Dea. In quanto creatrice di vita, la donna iniziata ai Misteri era essa stessa una “teofania” del divino.

Ecco allora che Morgana è la Signora dell’isola di Avalon, in cui si custodiscono gli antichi Saperi, in cui ancora si accedono i fuochi di Beltane, e si levano canti di vita e di morte per il triplice volto della Grande Madre. Là, nell’isola che sorge nel mare dell’estate, nel cuore del Somerset, staccata dal fluire del tempo eppure esistente, si compie la magia suprema.


Morgana è la Dama del lago ma anche altro: «alcune tradizioni considerano Morgana una forma della Dea –Madre dei Celti, Matrona o Morgen, una dea associata all’inverno e alla morte o, come la morgana bretone, una vendicativa creatura del mare. La parola fey si collega sia al significato di fata sia a quello di destino e rimanda alla dea irlandese dal triplice aspetto, la Morrighu che, secondo la tradizione, proteggeva i re eroi. Morgana è anche la custode del culto della regalità sacra, il che spiega la sua ira quando, negli ultimi anni, Artù non si dimostrò degno del suo ruolo. Egli aveva, infatti, iniziato a dare più ascolto ai preti che a Merlino e stava permettendo che il potere della Ruota solare (la Tavola Rotonda) si dissipasse a causa della sua ossessione per il Graal. Quando i cavalieri presero strade diverse nel tentativo di trovare il Graal per salvare la propria terra, alcuni di loro morirono o si ammalarono, e il regno indifeso finì nelle mani di Mordred il traditore[3]».

 

Il trascorrere del tempo non ha opacizzato il fascino di Camelot o di Avalon, e questa è la vera eredità di Artù e Morgana: il sogno lucente di un’età dell’oro fatta di pace e giustizia.


Io lo so, perché ero lì con loro. Ho raccolto le loro confessioni, paure e speranze. Ho difeso Artù, ho lottato per Avalon e ho servito Morgana la Fata. Ho fatto questo e molto altro, ma oltre non posso dire.

Volete sapere chi sono?

Sono Excalibur.

 

Excalibur la spada nella roccia
Excalibur, la spada del destino

 


[1] T. Malory, Storia di re Artù e dei suoi cavalieri, a cura di Tiziana Villa, Edisco Editrice, Torino, 2012, p.12.

[2] Sigla tv del cartone animato La spada di King Arthur, scritta da R. Zara e cantata dai Cavalieri del re.

[3]C. Eason Fate e creature magiche. La chiave del mondo segreto. Venexia Editore, Roma, 2007, p.177.

 
 
 

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