Per noi si va nella dimora eterna
- Stefania Tosi
- 17 apr
- Tempo di lettura: 3 min

Siamo stati calpestati per la prima volta tremila anni fa, o forse più.
Non contiamo il tempo come fate voi, con i vostri giorni e le vostre stagioni; per noi, il tempo è un’ombra che si allunga, un silenzio che si spezza solo quando qualcuno osa scendere. Siamo freddi, ruvidi, scavati nella roccia viva da mani che non ricordiamo più. Siamo stati testimoni di un segreto, un peso che ci ha tenuti nascosti sotto la terra, finché il sole non ci ha trovati di nuovo.
Sopra di noi, la polvere del deserto soffiava leggera, ma qui sotto l’aria era densa, immobile, come se trattenesse un ultimo saluto. Sentivamo le voci – basse, solenni – di uomini che parlavano di un ragazzo, un re, un figlio degli dèi. Non capivamo le loro parole, ma il loro peso ci premeva, ci dava uno scopo. Ci hanno fatti per condurre a lui, per proteggerlo, per nasconderlo agli occhi del mondo.
Poi, il silenzio. Secoli di nulla, solo il lento scivolare della sabbia che ci copriva, strato dopo strato. Eravamo dimenticati, un ricordo sepolto insieme a chi ci aveva creati. Ma anche nel buio, sentivamo qualcosa: il battito di un cuore lontano, il sussurro di un nome che non svaniva. Aspettavamo, perché sapevamo – o forse speravamo – che qualcuno sarebbe tornato. Non per noi, ma per ciò che custodivamo.
E poi, un giorno, il rumore è tornato. Era diverso, questa volta: passi incerti, voci straniere, un’energia che non conoscevamo. Era il 4 novembre 1922, anche se allora non lo sapevamo. Sentimmo il colpo di una pala, il grattare della terra che si apriva, e poi il primo piede che ci toccava di nuovo. Era un uomo, un cercatore di segreti, con il respiro corto e gli occhi pieni di meraviglia. «Guardate qui!» gridò, e altri lo seguirono, calpestandoci uno dopo l’altro.
Non erano come quelli di prima: i loro stivali erano diversi, il loro odore era nuovo, ma la loro curiosità era la stessa. Ci sfioravano con mani tremanti, pulivano la polvere che ci aveva protetti per millenni, e ci guardavano come se fossimo più di ciò che siamo.
Non siamo belli, lo sappiamo. Siamo rozzi, consumati, con bordi irregolari che raccontano il lavoro frettoloso di chi ci ha modellati. Eppure, per loro eravamo una porta, un invito, un filo che li legava a un passato che bruciava di oro e mistero. Ci calpestavano senza pensarci, ansiosi di vedere cosa c’era oltre, ma noi li sentivamo tutti: il peso dei loro passi, la loro paura, la loro fame di sapere. Uno di loro, un uomo con la voce ferma – Carter, lo chiamavano – si fermò su di me, il quinto, e guardò giù.
«Sì, è una tomba,» disse, e in quelle parole c’era una vittoria che non capivamo, ma che ci rendeva vivi di nuovo.
Ora sapete chi siamo. Siamo gli scalini della tomba di Tutankhamon, sedici gradini scavati nella Valle dei Re, testimoni di un giovane sovrano e di un mondo che lo ha pianto, poi dimenticato, poi ritrovato. Non parliamo, non ci muoviamo, ma portiamo i segni di chi ci ha attraversati: i sacerdoti che chiudevano un’era, gli scavatori che aprivano un’altra.
Siamo stati il cammino verso un tesoro, ma anche verso un sogno – il sogno di un ragazzo che voleva essere eterno, e di uomini che, millenni dopo, lo hanno reso tale calpestandoci.
E mentre il vento del deserto continua a soffiare sopra di noi, restiamo qui, freddi e silenziosi, a continuamo a condurre chiunque vorrà scendere ancora.
Comments